Piedra del Sol: Simbolo della cultura precolombiana e della civiltà Azteca

La storia e la comprensione dell’altro: una lezione di intelligence

Il problema della percezione dell’altro, in un sistema sociale attuale sempre più complesso e frastagliato, ci impone di mettere in relazione il nostro punto di vista con quello altrui sotto i profili dell’identità sociale, personale, culturale, non tralasciando l’importanza dei fatti che la storia ci ha consegnato.

I rapporti tra “noi” e gli “altri” hanno sempre posto il problema dell’identità sotto l’aspetto intimo del riconoscimento dell’alterità. Non riconoscere gli “altri” spesso porta a conflitti sotto più profili, ivi inclusi quelli etnici.

I conflitti religiosi, economici, militari ma anche sociali, talvolta hanno origine nella fase del mancato riconoscimento dell’altro sul semplice presupposto che la propria identità sia superiore a quella altrui.

Verrà qui affrontato il problema del rapporto tra cultura e identità, e si cercherà, partendo da un esempio storico molto importante, di mostrare che tale rapporto non è semplice e tanto meno di facile identificazione. Tutto sfocia alla fine nell’esercizio del potere. Spesso cambia solamente la legittimazione, o almeno, la sua percezione del fatto che si sia, o meno, legittimati nel suo utilizzo.

Purtroppo, molte volte, il genere umano non trae insegnamento dalla storia, perché in essa, sovente, si trovano le chiavi di lettura del presente.

LA CONQUISTA DELLE AMERICHE

Tra gli anni 1415 e 1522 gli attori indiscussi delle esplorazioni e delle conquiste che portarono alla scoperta delle Americhe furono il Regno di Castiglia e il Portogallo. Questi Regni intrapresero le esplorazioni nel Mar Atlantico in quanto avevano la necessità, o forse l’ambizione, di estendere i confini del mondo conosciuto, ricercando una differente e più vantaggiosa “strada” attraverso gli oceani che avrebbe consentito uno sbocco più efficace in grado di condurre sia ai tesori sostanzialmente vergini in Africa, sia al mercato delle spezie in India.

Il navigatore ed esploratore italiano Cristoforo Colombo intraprese ben quattro missioni attraverso l’Oceano Atlantico partendo dalla Spagna negli anni 1492, 1493, 1498 e 1502. La sua missione era quella di scoprire una nuova rotta diretta verso ovest dall’Europa verso l’Asia, ma durante tale tragitto, si è imbattuto nelle Americhe. Il 12 ottobre 1492 si distingue come evento che avrà un impatto determinante per il corso della storia, andando a modificare per sempre la vita su entrambe le sponde dell’Atlantico, ossia quella degli scopritori e quella degli “scoperti”.

Nel 1492 Cristoforo Colombo venne sponsorizzato dai sovrani spagnoli. In tale anno partì verso ovest salpando con le ormai famose tre caravelle, La Nina, la Pinta e la Santa Maria dalla Spagna con l’aspettativa di scoprire una nuova rotta marittima verso il continente asiatico. Colombo inizialmente riteneva di aver raggiunto le Indie, ma si rese presto conto successivamente di essersi incrociato in un continente completamente sconosciuto: questa era la terra che ora sappiamo essere l’America.

Malgrado tale non fosse il fine del suo itinerario, la scoperta è servita a produrre “vantaggi” non solo alla Spagna, ma anche al resto dell’Europa. Eppure, la storia ci ha insegnato che, dove una parte prospera, l’altra soggiace, e in tale paradigma, la vita degli abitanti indigeni delle Nuove Indie d’America è cambiata drasticamente nel peggiore dei modi. La “scoperta dell’America” ha avuto enorme impatto nel vecchio mondo europeo, andando a sconvolgere oltre modo numerosi aspetti della secolare vita dell’uomo del vecchio continente.

Con il 1492 siamo entrati – come scrisse Las Casas – “in questo nostro tempo così nuovo e così diverso da ogni altro” 1.

La scoperta dell’America, e la sua successiva esplorazione, racconta una storia molto diversa rispetto alle altre in quanto rappresenta uno dei più significativi incontri tra civiltà molto differenti tra loro. I secoli successivi al 1492 ci hanno mostrato un “incontro – scontro” durato molti secoli, tra le culture profondamente diverse del Vecchio continente e del Nuovo Mondo.

Le differenze tra le due civiltà che si sono incontrate sono sostanziali, quasi aliene reciprocamente, in quanto il nuovo mondo non possiede praticamente nulla del modello culturale europeo e viceversa.

In tale contesto di palese difformità giocherà un ruolo fondamentale l’approccio che gli scopritori avranno nei confronti degli scoperti.

Un primo indizio di questo approccio lo si nota nel seguente passaggio tratto dai diari del primo scopritore ufficiale delle Americhe: Colombo parla degli uomini che vede solo perché, dopo tutto, fanno parte anch’essi del paesaggio. I suoi accenni agli abitanti delle isole sono sempre inframezzati alle sue annotazioni sulla natura: fra gli uccelli e gli alberi vi sono anche gli uomini, “nell’interno vi sono molte miniere di metalli e innumerevoli abitanti (lettera a Santagél, febbraio-marzo 1493)” 2.

La scoperta dell’America ha stimolato in modo considerevole l’indagine naturalistica (anche con Colombo, molto interessato al paesaggio) e, in parte sotto il profilo antropologico, andando a ricercare le differenze dal punto di vista morfologico, fisiologico, psicologico dei soggetti “scoperti”, ma comunque sempre sotto quel non troppo velato sentimento di superiorità degli europei nei confronti delle popolazioni native delle Americhe. Il concetto dell’umanità europea nei confronti dei nativi americani rapidamente passò da un atteggiamento, inizialmente contenuto nei confronti degli uomini a “corredo del paesaggio”, verso un chiaro ed esplicito sentimento di superiorità. Lentamente tale sentimento suprematista venne intaccato, ma purtroppo non ha consentito di evitare un drammatico sterminio provocato dall’uomo. L’atteggiamento dell’osservatore europeo è da inquadrare nel complesso punto di vista di colui che possiede un bagaglio culturale, religioso ed antropologico, senza riuscire generalmente a discostarsi da tali basi nell’esprimere il proprio giudizio nei confronti di una civiltà profondamente difforme alla propria. In tale contesto di analisi, un ruolo molto marcato sarà dato dalla predisposizione religiosa del “cristiano conquistadores”, aspetto impossibile da trascurare nell’intera vicenda, infatti, si manifestarono tutti quei complessi, i tabù e i pregiudizi del popolo europeo.

IL PROBLEMA “DELL’ALTRO”

Si è visto come al termine del XV secolo il dominio europeo aumentò notevolmente, e inoltre, l’esplorazione e la conquista delle Americhe non rappresentò solamente l’impossessamento di nuove terre, ma anche di popoli ritenuti primitivi, che di fatto non espressero particolari forme di resistenza nei confronti dei conquistatori. In relazione alla conquista delle Americhe il cristianesimo ebbe un ruolo tutt’altro che secondario, in quanto la concezione religiosa europea ha di fatto posto le basi inerenti all’approccio con cui gli scopritori si posero nei confronti dei nativi americani.

Una ricostruzione plausibile dell’incontro tra le civiltà, in relazione al sentimento di sorpresa suscitata dalla scoperta delle nuove Indie e dei popoli che la abitavano, sarà basata sulle testimonianze fornite dagli scopritori e dai successivi attori primari, in quanto si ritiene più che rilevante approcciarsi alla “questione” anche dal loro punto di vista, rammentando la profonda difformità di prospettiva che intercorre tra i popoli europei del ‘500 ed il nostro modo attuale di osservare la realtà.

Preliminarmente si porrà l’accento sul termine “scoperta”.

L’uso del termine «scoperta» in riferimento a queste terre e a questi popoli viene oggi contestato da coloro che sostengono, con buone ragioni, che i popoli nativi abitavano quelle zone da tempo ed erano perfettamente consapevoli di sé stessi: parlare quindi di “scoperta” significa scrivere una storia eurocentrica che offende la loro identità 3.

La cosa importante è ricordare che si trattò di un rapporto bidirezionale: gli europei incontrarono quei popoli per la prima volta ma anch’essi entrarono per la prima volta in contatto con gli europei 4.

In un contesto generale di fervore derivante dalla scoperta di nuovi ed immensi territori da conquistare, il ruolo dei popoli che risiedevano nelle Americhe è stato a quei tempi inizialmente considerato come argomento di importanza quasi secondaria.

In tale contesto di “secondaria importanza” inoltre si venne a creare da parte degli europei un problema, ossia quello inerente al fatto che, tali popoli, all’epoca del primo contatto con gli europei, non avessero lo stesso Dio.

Ovviamente tale aspetto venne osservato con grande imbarazzo e allarme degli europei, in quanto non era concepibile che i nativi non avessero mai sentito nominare Cristo (o Mosè, o Muhammad); popoli per cui divenne poi consueto definire della «età della pietra», che non conoscevano i metalli duri, non avevano città, spesso non usavano abiti e talvolta, come si raccontava, si dedicavano al perverso piacere di mangiarsi a vicenda 5.

Le credenze religiose europee hanno giocato un ruolo significativo nel contatto con “l’altro”, in quanto gli europei hanno assunto a definitivo modello culturale il proprio, stabilendo a priori che il loro sistema culturale fosse superiore.

Sin dai primi contatti avvenuti con Colombo il rapporto tra le due “specie” era stato basato sulle differenze, ma queste differenze non erano considerati quale modello identificativo all’interno di una specie umana con proprie prerogative, ma quale modello riferito a uomini e donne «primitivi».

Tale concezione si rifletteva nello spirito tenuto da Colombo nei confronti dei nativi. Questi in uno dei suoi scritti mostrava come non fosse in grado di attribuire agli indios uno status umano, non individuando in loro la facoltà di avere una propria determinazione, quasi come dei meri oggetti.

Infatti: “Colombo vuol riportare in Spagna esemplari di ogni genere: alberi, uccelli, animali, indiani. L’dea di chiedere il loro parere gli è del tutto estranea. «Dice che avrebbe voluto fare prigionieri una mezza dozzina di indiani per portarli via con sé, ma dice che non poté prenderli perché erano partiti tutti prima del cader della notte. Ma il giorno dopo, martedì 8 agosto, dodici uomini si avvicinarono alla caravella in una barca; furono tutti catturati e trasferiti sulla nave dell’Ammiraglio, che ne scelse sei e rispedì a terra gli altri sei» (Las Casas, Historia, I, 134). La cifra è fissata in anticipo: una mezza dozzina. Gli individui non contano: vengono contati. In altra occasione, Colombo vuole delle donne (non per lubricità, ma per avere un campione di tutto). «Poi mandai degli uomini a una casa vicino al fiume verso ovest, ed essi presero sette donne, tra piccole e grandi, e tre bambini» (Giornale di bordo, 12 novembre 1492)” 6.

Appare purtroppo evidente che i nativi vennero considerati come degli oggetti, al pari di animali che potessero essere catturati, mostrati e alienati senza porsi lo scrupolo di rispettare le loro usanze o le loro origini. In un sistema umano ideale le molteplici culture dovrebbero essere considerate ognuna parte del complesso dell’esperienza umana, purtroppo, soprattutto a quell’epoca, le diversità erano considerate motivo di scontro e sopraffazione. Sarebbe insensato, al giorno d’oggi, concepire un blocco unitario culturale che non sia composto dalle pluralità sociali che compongono il genere umano. In tale sfondo di pensiero, però, bisogna riferirsi necessariamente al modo di concepire l’essere umano alla fine del 1400. Oggi potrebbe, o almeno, dovrebbe essere naturale accettare e comprendere “l’altro”, in quel periodo tale processo poteva risultare finanche inammissibile. Vien da chiedere come stanno le cose in questo momento.

Purtroppo, gli accadimenti della storia anche recenti pongono il serio dubbio che la comprensione dell’altro viene attuata a proprio piacimento. I conflitti attuali lo dimostrano. Le ingerenze nemmeno troppo velate delle relazioni internazionali lo dimostrano in pieno. Si critica a priori la scelta altrui senza comprendere appieno le ragioni che stanno alla base di queste.

In quel periodo la relazione dell’uomo con il mondo era basata da lenti, quasi immobili, modificazioni delle relazioni interpersonali basati su pochi, ma pregnanti, dogmi difficilmente da abbandonare o scalfire.

In quel periodo poteva risultare estremamente difficoltoso prendere atto delle composite e diverse sfaccettature con cui si poteva presentare “l’altro”, un individuo nato e cresciuto con usi e costumi totalmente difformi, “l’altro” che non aveva mai avuto contatti con lo stile di vita europeo.

Una domanda in termini generali, la quale oggi non avrebbe certamente difficoltà ad essere posta, e che avrebbe potuto permettere una svolta con numerose implicazioni di ordine etico, forse anche logico, in rapporto alla cultura “dell’altro” potrebbe essere questa: la diversità culturale dell’altro è in grado di porre il “diverso culturale” su piani esistenziali differenti?

Certamente vi sono molte possibilità di risposta a tale domanda, che potrebbero essere di tipo prospettico in relazione a giudizi di valore quali superiorità o inferiorità, oppure in termini di assorbimento dell’altro, oppure semplicemente come comprensione dell’altro.

Tra le varie possibilità di risposta alla domanda potrebbe essere quella data da Todorov in “La Conquista dell’America – Il problema dell’altro”, in cui lo studioso propone di narrare elementi molto vicini al mito, basati sui diari dei principali interpreti della conquista delle Americhe. In tale contesto si desidera di fare della scoperta dell’America, non solo l’inquadramento del punto di vista degli scopritori verso gli “scoperti”, ma anche un viaggio verso il ritrovamento di ciò che eravamo più di 500 anni or sono. Forse Todorov con tali presupposi indica non soltanto come eravamo, ma forse anche come dovremmo approcciarci nei confronti dell’altro, nei confronti del diverso.

Lo studioso Tzvetan Todorov dedica La conquista dell’America – Il problema dell’altro alla memoria di una donna maya massacrata dai cani.

Questa, si era rifiutata di divenire schiava, e quindi mera cosa, di un conquistadores, il capitano Alonso López de Avila.

Uno degli aspetti peculiari della vicenda, oltre alla crudeltà che le è stata riservata dal conquistatore europeo, è quella relativa alla totale mancanza di informazioni relative alla personalità di tale donna.

Non si conosce nemmeno il nome.

Tale storia viene raccontata dalle parole del vescovo Diego de Landa, nella sua Relazione sullo Yucatán, riportate quale manifesto nella prima pagina del lavoro di Todorov quasi a rappresentare un monito.

Si noti che il vescovo ritenne opportuno di riportare il nome dell’uomo che la fece massacrare.

Si ritiene importante riportare esattamente quanto scritto da Diego della Landa: “il capitano Alonso López de Ávila aveva fatto prigioniera, durante la guerra, una giovane indiana, donna bella e graziosa. Costei aveva promesso al marito, il quale temeva di poter essere ucciso in guerra, di non appartenere ad altri che a lui; ed essa preferì perdere la vita piuttosto che farsi macchiare d’infamia da un altro uomo. Per questo fu data in pasto ai cani” 7.

Todorov si chiese come fosse possibile raccontare la vicenda sotto un approccio differente, si chiese come parlare dell’altro. Egli fornì una risposta, decidendo di affrontare il tema dell’altro raccontando la conquista delle Americhe con gli occhi dei protagonisti, raccontando dal loro punto di vista una storia di violenza inaudita, anche perché una delle strategie adottate dai conquistadores era quella di annullare la memoria storica di un popolo antico. In tale ottica i conquistati non hanno potuto fornire la loro testimonianza.

La storia raccontata ci fa scoprire l’indirizzo degli europei volto ad annullare sistematicamente la diversità dei nativi americani, sostituendola con gli usi, costumi e religione dei conquistatori. Il metodo utilizzato era volto alla cancellazione selettiva della diversità caratterizzante gli indios. È stata annullata la loro alterità ed uniformata al modello europeo. A partire da quell’epoca, e per circa trecentocinquanta anni, l’Europa occidentale ha cercato di assimilare l’altro, ha cercato di far scomparire l’alterità esteriore, e successivamente quella interiore. Purtroppo, in gran parte il metodo ha funzionato.

Il suo modo di vita e suoi valori si sono diffusi in tutto il mondo; come voleva Colombo, i colonizzati hanno adottato le nostre usanze e si sono vestiti 8. In tale contesto di assimilazione, si è anche affiancato l’annientamento di intere civiltà. Nessuna seria contestazione ha potuto essere mossa contro queste cifre, e coloro che ancor oggi continuano a rifiutarle, lo fanno semplicemente perché, se la cosa fosse vera, sarebbe urtante 9.

La velocità con cui gli spagnoli giungono a spingersi nell’interno del territorio di conquista, la velocità di comprensione delle divisioni interne della società dell’altro (con Cortés), la capacità con cui essi giungono a sfruttare le debolezze dei nativi, stupiti e spaventati di fronte all’arrivo di tali uomini così differenti da essi e dei quali non coglievano le brutalità e le depredazioni, consentono ai conquistadores di avviare il totale assoggettamento, asservimento e annientamento, nel giro di un secolo, di milioni di persone.

Questa affermazione viene in parte mitigata (assumendo connotati quasi insignificanti nel contesto generale) da Todorov in quanto egli afferma che la responsabilità degli spagnoli fu inversamente proporzionale al numero di vittime attribuibile a ciascuna di esse 10:

  1. Per uccisione diretta, durante le guerre o al di fuori di esse (numero elevato, ma relativamente esiguo): responsabilità diretta.
  2. In seguito a maltrattamenti (numero più elevato): responsabilità (un po’) meno diretta.
  3. Per malattie, per «choc microbico» (la maggior parte della popolazione): responsabilità diffusa e indiretta.

Abbiamo osservato il punto di vista dei conquistadores nei confronti dei nativi indiani. In senso opposto è da osservare l’immagine che i nativi americani hanno avuto dei conquistadores spagnoli nel corso dei primi contatti con essi; infatti, gli indios ebbero la convinzione che gli invasori fossero divinità, non riuscendo a percepire l’identità umana degli altri.

Non riuscendo a inserirli in un contesto simile a quello da loro conosciuto, essi “si sentono spinti a ricorrere all’unico altro dispositivo accessibile: lo scambio con gli dèi” 11.

Ancora una volta vi era il problema del riconoscimento dell’altro, ma questa volta a posizioni invertite. Il contesto di prospettiva di percezione dell’altro, sia da parte degli indios, sia da parte dei conquistadores, ci consegna un quadro generale di inabilità nel comprendere l’umanità del diverso come un soggetto a noi uguale, ma contemporaneamente diverso da noi.  La storia della conquista dell’America ci ha insegnato che “la differenza si converte in ineguaglianza, l’eguaglianza in identità; sono le due grandi figure del rapporto con l’altro che ne designano l’inevitabile spazio” 12.

IL PROCESSO DI ASSIMILAZIONE DELL’ALTRO

Il popolo conquistatore europeo arriva all’incontro con il “diverso” chiaramente colto di sorpresa, ove la scoperta dell’altro non genera né il desiderio di comprensione né, tantomeno, di rispettare le differenze sociali e culturali che si trovò di fronte. Il punto di vista del conquistatore europeo è fortemente caratterizzato da modelli che utilizzano una profonda differenziazione/distinzione tra popoli civili e barbari, rammentando la profonda religiosità di quei periodi unita alla superiorità tecnologica.

Nel momento in cui due o più gruppi sociali, di grandezze e potenziali differenti, si incrociano, si avranno scambi di ideali, credenze e folclori, regole e usanze sociali, da una parte e dall’altra.

Nell’incrocio di culture che si è avuto a quei tempi però, si è avuto un predominio di potere impositivo da parte dei conquistadores, dato dalla forza coercitiva e dallo stile culturale di questi. Il più forte dei due gruppi tendenzialmente riesce a predominare sull’altro, anche sotto il profilo del trasferimento del proprio patrimonio culturale. Specularmente, il gruppo più debole termina nell’accettare il modello culturale dell’altro.

Il processo si schematizza in categorie ben differenti tra loro: l’assimilazione (e relativa perdita del patrimonio culturale dell’assimilato), l’integrazione e l’accrescimento.

Il processo di assimilazione (che ben si è mostrato con la conquista delle Americhe) si manifesta qualora un gruppo (talora) ampio, forte a aggressivo perviene ad inglobare al suo interno un gruppo minoritario o più debole sotto più profili, fino al punto che quest’ultimo perderà le qualità che prima possedeva.

Relativamente al processo messo in atto dai conquistadores, notiamo che al momento dell’invasione essi non avevano la caratteristica di gruppo numeroso, ma sono riusciti ad attuare stratagemmi che di fatto li hanno condotti alla superiorità strategica e tattica, il cui esempio potrebbe essere dato dalla capacità di Cortés di sfruttare le informazioni e portare allo scontro i popoli conquistati.

La conquista coloniale delle Americhe ha portato alla rapida modifica di quasi tutti i sistemi politici, economici, culturali e sociali dei nativi, sostanzialmente fino alla loro completa cancellazione, anche perché il metodo utilizzato dai conquistatori è stato basato sulla cancellazione della memoria storica dei conquistati.

Il processo di integrazione e/o accrescimento durante tale periodo storico era sostanzialmente impossibile, in quanto giocavano contemporaneamente due fattori, il primo era quello fondamentale della conquista e del relativo sfruttamento delle terre e dei popoli, il secondo era quello inerente alla totale incompatibilità religiosa e culturale tra i popoli che si incontrarono.

L’ultima affermazione deriva sostanzialmente dalla totale indisponibilità degli europei alla concessione di una possibile libertà religiosa da parte degli indios, in quanto l’opera di evangelizzazione era uno dei cardini dell’opera di conquista, e chiaramente, sottomissione anche religiosa degli indios.

Gli Europei del periodo della scoperta delle Americhe non erano ricettivi ad individuare, e valutare positivamente le differenze inerenti agli usi e costumi di popoli lontani. Essi classificavano tali difformità come sostanziali, almeno in fase iniziale, facendole rientrare in un contesto di sub-umanità degli indios.

Il tipo di approccio alle differenze di usi e costumi da parte degli europei in rapporto agli indios sono plateali, essi sono diversi dagli occidentali, e ciò per l’europeo era evidente. Da ciò ne derivava che la differenza era da assurgere ad inferiorità, considerato che la società̀ del Vecchio Mondo era manifestamente (dal loro punto di vista) colta e progredita, nonché portatrice dell’unica “vera” religione. Tale paradigma venne apparentemente scalfito con la bolla papale Sublimis Deus di Paolo III, emanata nel giugno 1537. In essa vi era riferita un’affermazione assolutamente dirompente per l’epoca: “Indios veros homines esse”. Il papa del tempo chiarì che “gli Indios sono veri uomini e che sono capaci di fede cristiana”.

Però, benché ora gli indios siano stati considerati “uomini”, ora vi era il problema della loro identità, in quanto ora vi era in atto il chiaro sforzo di rendere l’altro identico al conquistatore evangelizzatore, affermando che l’opera di evangelizzazione data ai “predicatori della fede da lui prescelti (Gesù) per quel compito è andate ed insegnate a tutte le genti”.

Il sintomo della diversità è multiforme, deriva da più aspetti, tra cui quelli religiosi, ove in apparenza l’inferiorità delle credenze religiose degli indios è stata mitigata dall’opera papale, in quanto vi è la convinzione che il mondo è uno ed all’interno non sia ammessa la diversità, e per tale motivo, vi era la necessità anche in ambito religioso di eliminare le differenze.

Purtroppo “il Nuovo Mondo” venne modellato a immagine e somiglianza del Vecchio, sostanzialmente facendolo divenire una mera propaggine dell’Occidente da spremere senza alcun tipo di scrupolo.

I “segni” di tale opera di cannibalizzazione ancora sono evidenti, e le riserve indiane ne sono un totem.

IL DIVERSO VISTO DAI CONQUISTADORES

Le genti che abitavano tali terre distanti, erano sostanzialmente differenti dagli europei, in quanto non avevano lo stesso tipo di carnagione, non erano bianchi, comunicavano con lingue incomprensibili, spesso non utilizzavano indumenti ed andavano pertanto nudi, non avevano all’apparenza leggi, sono dei senza Dio, crudeli e violenti.  Chiaramente non appartenevano allo stile di vita europeo.

Per tali naturali differenze, gli indios pagheranno aspramente proprio tale diversità chiaramente intollerabile da parte dei conquistatori, subendo ogni specie di prepotenza, saranno trasformati in schiavi, le loro vite deformate e annientate. Tutto ciò deriva dalla differenza, che precede l’incapacità di cogliere l’identità “umana” dei selvaggi.

I diari di bordo, gli scritti e le narrazioni degli esploratori ci hanno procurato importanti spiegazioni sull’idea che gli europei avevano nei confronti dei nativi americani, infatti Colombo riferisce 13: “Gli abitanti di quest’isola [Hispaniola] e di tutte le altre che ho scoperto o di cui ho avuto notizia vanno tutti nudi, uomini e donne, così come le loro madri li mettono al mondo, anche se alcune donne si coprono una sola parte del corpo con una foglia o una pezzuola di cotone che preparano a tale scopo. Non hanno ferro, né acciaio, né armi, e non vi sono tagliati, non già perché́ non siano gente robusta e di bella statura, ma per il fatto che sono incredibilmente paurosi. La verità è che, dopo che si sono rassicurati e hanno deposto questo timore, sono tanto privi di malizia e tanto liberali di quanto posseggono, che non lo può credere chi non l’ha visto. Qualunque sia la cosa in loro mano che venga ad essi richiesta, non dicono mai di no; e si tratti di valore, oppure di cosa di poco prezzo, la cedono in cambio di un oggettino qualsiasi e se ne tengono paghi”.

Nelle fasi iniziali Colombo ha un atteggiamento nei confronti degli indios quasi affettuoso, ma purtroppo, tali sentimenti successivamente si scontrano con le fondamenta “culturali” dell’essere europeo, infatti 14: “prendevano persino i pezzi degli archi rotti e dei barili e davano quello che avevano, senza discernimento, come bestie: tanto che mi parve male e lo proibii, e io stesso donavo loro mille oggetti graziosi e utili che avevo portato con me, perché si affezionino e di conseguenza si facciano cristiani, e siano inclini alla devozione e al servizio delle Loro Altezze e di tutta la nazione castigliana, e procurino di raccogliere e di consegnarci i prodotti di cui abbondano e che ci sono necessari”.

Todorov analizza tali affermazioni nel seguente modo 15: “da un lato, dunque, Colombo vuole che gli indiani siano come lui e come gli spagnoli” e “la sua simpatia per gli indiani si traduce «naturalmente» nel desiderio di vederli adottare le sue stesse usanze. Questo desiderio di far adottare dagli indiani i costumi degli spagnoli non viene mai giustificato: è una cosa che va da sé”.

Appare naturale al conquistatore Colombo che gli indios assimilino un’altra lingua, quella spagnola, e si convertano ai valori occidentali, i quali ovviamente non verranno mai messi in disquisizione. Non avviene il contrario.

Sotto il profilo squisitamente inerente alle sembianze dei nativi Colombo riferisce 16: “in ogni caso, gli abitanti erano «persone», non una razza mostruosa di cinocefali. In queste isole finora non ho trovato uomini mostruosi, come molti pensavano, ma anzi sono tutti gente di assai bell’aspetto. Era certo che avessero forme del tutto umane in quanto tutti, maschi e femmine, se ne stavano completamente nudi, anche se in questa fase non aveva visto che alcuni giovani uomini e una ragazzina. Gli uomini erano «tutti di bella figura», erano di «bellissimo corpo» e assai gradevoli anche nella fisionomia. I loro capelli erano spessi e corti, tagliati a caschetto, anche se sul retro della testa portavano una lunga coda di cavallo che si rifiutavano di tagliare; avevano le fronti insolitamente ampie, gambe dritte e ventri muscolosi. Anziché indossare abiti, si dipingevano il volto o addirittura l’intero corpo prevalentemente di bianco, di rosso e di nero. Ma anche se si dipingevano di nero, il loro colore naturale era assai più chiaro, sono del colore dei canariani, né negri, né bianchi; di essi nessuno è di colore nero, ma hanno il colore dei canariani e non ci si può attendere una cosa diversa, perché questa isola si trova a ponente, sulla stessa linea di latitudine dell’isola del Ferro, nelle Canarie”.

L’analisi di Colombo è molto semplice e basica, infatti egli descrive i nativi come belli/brutti, bianchi/neri, maschi/femmine.

Nulla di più.

Colombo parla degli uomini che vede solo perché, dopotutto, fanno parte anch’essi del paesaggio. I suoi accenni agli abitanti delle isole sono sempre inframmezzati alle sue notazioni sulla natura: fra gli uccelli e gli alberi vi sono anche gli uomini. «Nell’interno vi sono molte miniere di metalli e innumerevoli abitanti» (Lettera a Santángel, febbraio-marzo 1493).

Come già accennato, le osservazioni di Colombo si riducono solamente al mero aspetto fisico delle persone, anche se in alcuni frangenti delle sue riflessioni riferisce qualcosa di più in quanto “sembravano loro molto ragionevoli e dotati di acuta intelligenza”, e inoltre, agli occhi di Colombo, sono anche privi di ogni proprietà culturale: sono caratterizzati, in qualche modo, dalla mancanza di costumi, di riti, di religione (e in ciò vi è una certa logica, perché per un uomo come Colombo gli esseri umani si vestono in conseguenza della loro espulsione dal paradiso terrestre, che poi all’origine della loro identità culturale) 17.

Sulla base di tali premesse, a partire da Colombo, si avrà chiara dimostrazione della sostanziale incapacità da parte degli europei di “notare” le differenze culturali degli indios, considerato che, nei fatti, i nativi venivano considerati quasi un naturale complemento della natura, lussureggiante, che era stata scoperta in tali luoghi.

IL RUOLO DI CORTÉS NELLA CONQUISTA: LA FUNZIONE DELLE INFORMAZIONI ED IL RAPPORTO TRA CORTÉS E MONCTEZUMA

Hernan Cortés nacque nel 1485 a Medellin, nella provincia di Extremadura, da una famiglia di nobili. Egli partì per le “Nuove Indie” nel 1504, e con il governatore Velazquez sottomise Cuba nel 1511, acquisendo il titolo di “Alcade di Santiago de Cuba”. Tale titolo gli concesse di accedere agli alti ranghi della nobiltà spagnola conducendolo ad una considerevole prosperità economica.

Il conquistadores per eccellenza non si frenò dopo aver raggiunto tale risultato, iniziando così una nuova avventura dopo aver ricevuto informazioni dall’esploratore Nunez in merito alle nuove terre appena scoperte, infatti, Cortés convinse il governatore di Cuba a farlo partire, quindi, si imbarcò alla volta dell’esplorazione della terraferma posta ad ovest dello Yucatan.

La figura di Cortés è da analizzare simmetricamente alla figura di Monctezuma, in quanto facce della stessa medaglia, ma alla luce di una premessa importante: i segni.

L’8 novembre del 1519, nella imponente (per quei tempi ed in riferimento agli standard europei) città messicana di Tenochtitlan (attuale Città del Messico, al tempo costruita in mezzo al lago Texcoco, ora prosciugato) ebbe luogo un incontro storico senza precedenti. Il condottiero di una minuscola spedizione spagnola Hernan Cortés, incontrò il sovrano di uno dei più importanti stati dell’America precolombiana: Monctezuma.

L’incontro fu l’inizio di una successione di negoziati tra Cortés ed i diplomatici di Monctezuma, segnando l’avvio della caduta del potere degli Aztechi.

L’incontro tra Cristoforo Colombo e i caraibici Tahino, avvenuto sostanzialmente pochi anni prima nel 1492, diede l’avvio al processo di conquista ed assimilazione, mentre l’incontro tra Cortés e Monctezuma contraddistingue il primissimo interscambio culturale tra la popolazione europea e quella americana: il Sacro Romano Impero di Carlo V e gli Atzechi di Monctezuma.

Vi fu un aspetto divergente rispetto ai primi contatti con i nativi che ebbe Colombo e quello che ebbe Cortés, infatti per la prima volta dal contatto tra le civiltà, quindi tra europei e nativi americani, i primi si imbatterono nelle straordinarie città dorate e colme di vita, tanto che gli stessi conquistadores furono stupiti di fronte ad una tale prosperità. Purtroppo, lo stupore europeo ben presto fu trasformato in senso di avidità innanzi alle ricchezze che inaspettatamente si mostrarono loro. La magniloquenza delle architetture era anche affiancata dalle vesti di Monctezuma, in quanto egli indossava caschi ornati con piume rosse e verdi di quetzal decorate di oro, coltelli rivestiti in oro, gemme in giada e di oro.

Tali fasti non erano seguiti da analoghi atteggiamenti, soprattutto da Monctezuma, in quanto il sovrano azteco apparve incerto e titubante, contrariamente a Cortés il quale, benché attorniato da migliaia di nativi americani, ed essendo sostanzialmente nel cuore della civiltà Atzeca, si presentò sicuro e forte, nonostante la sua netta inferiorità in termini numerici, e quindi militari.

Il filosofo Todorov nel suo saggio – La conquista dell’America. Il problema dell’altro – afferma che la conquista operata da Cortés ai danni di Monctezuma ha radici ben diverse dalla semplice superiorità degli armamenti spagnoli, tra cui archibugi, cannoni, spade e armature in ferro, e finanche il cavallo, sconosciuto alle popolazioni native americane, vi era anche un altro fattore, per molti aspetti determinante, ovverosia la comparsa di morbillo e vaiolo, una sostanziale arma (inconsapevole) batteriologica portata dagli spagnoli nel continente americano.

Todorov, pertanto, afferma che risulta essere superficiale riferire che la conquista è stata frutto esclusivo della superiorità delle armi, anche perché i soldati di Cortés erano solamente cinquecento e le armi a disposizione, tra cui gli archibugi ed i moschetti non oltrepassavano la ventina, e inoltre, con loro al seguito vi erano pochi pezzi di pezzi d’artiglieria e nemmeno una ventina di cavalli. Le ragioni del successo erano da ricercare altrove, in quanto fin troppo spesso non si tiene conto di altri elementi, spesso determinanti. Alcuni di questi elementi ruotavano attorno alla comprensione dell’altro soggetto con cui si intrattiene la relazione. Questo elemento è determinante.

Il confronto appartiene anche al modo di comunicare tra le parti in gioco, in tal senso Todorov riferisce che “gli indiani e gli spagnoli praticano la comunicazione in modo diverso. Ma il discorso sulla differenza è un discorso difficile. Lo si è già visto con Colombo: il postulato di differenza suscita facilmente un senso di superiorità, il postulato di eguaglianza suscita un senso di indifferenza.  Non è facile resistere a questa duplice sollecitazione, tanto più che il risultato finale dell’incontro sembra indicare senza ambiguità il vincitore: non è forse vero che gli spagnoli sono, non solo diversi, ma superiori? La verità, o ciò che terrà luogo di essa, non è tuttavia così semplice” 18.

Anzi, il ragionamento riferito alla superiorità linguistica e comunicativa, dovrebbe essere invertito, dato che “non c’è evidentemente alcuna inferiorità «naturale» da parte degli indiani, infatti si è visto, ad esempio, che ai tempi di Colombo erano loro che imparavano la lingua dell’altro” 19.

Il sistema comunicativo degli Atzechi era frutto di un lungo processo che nel tempo assunse forme notevolmente elaborate, collegate alle varie specie di divinazione. Una di esse era riferita alla divinazione dei cicli, basata sul famoso calendario religioso composto da tredici mesi di venti giorni l’uno, ove ciascuno di questi giorni possiede uno specifico carattere, fasto oppure nefasto, che si tramanda alle persone nate in quel particolare giorno. Su tali concetti gli Atzechi costruirono una parte della loro cultura, che di certo non risultava essere primitiva.

Il ragionamento di Todorov è anche supportato da un altro fattore, quello che ruota attorno alle figure degli interpreti, soprattutto utilizzati da Cortés.

All’incontro tra i conquistadores e Monctezuma vi era un personaggio chiave nella conquista mesoamericana, Malintzin, o Malinche, donna indigena fatta schiava a conoscenza del nahuatl, la lingua degli Aztechi.

In relazione alla (per lui) necessità comunicativa, Cortés dopo essere approdato nello Yucatan, ebbe la necessità d’avere degli interpreti, in quanto egli riteneva che la comunicazione, e quindi l’informazione, fosse la base per riuscire nell’impresa della conquista. Presso gli abitanti maya dello Yucatan Cortés recluta un superstite di una passata spedizione del 1511, un certo Jeronimo de Aguilar. Quest’uomo aveva imparato la lingua dei nativi con cui riuscì, per conto di Cortés, a comunicare con Malinche, la quale successivamente traduceva la lingua spagnola agli Aztechi. Il rapporto linguistico tra la Malinche ed Aguilar fece un salto, in quanto in pochi mesi la donna riuscì a parlare spagnolo. Nella catena ora vi era un anello in meno, e non fu una cosa di poco conto.

Specularmente, Monctezuma non possedeva interpreti come la Malinche, in quanto la sua strategia era tutta basata nel dissuadere gli spagnoli dal loro intento di incontro personale all’interno della sua città, replicando con l’invio di ori e preziosi onde farli desistere dal tentativo di conquista, ma invece, l’invio di regalie non fece altro che stuzzicare ulteriormente la sete di ricchezza dei conquistadores.

La superiorità tattica di Cortés derivante dall’utilizzo della Malinche ebbe indubbie implicazioni, infatti, egli con il suo utilizzo riusciva ad avere informazioni su territori, denominazioni, istituzioni e stemmi dell’Impero messicano, utilizzando il tutto a proprio vantaggio. In considerazione dell’utilizzo dell’opera degli interpreti, Cortés riuscì ad avere informazioni derivanti da tutti gli incontri, tra cui quelli con i Cacicchi (capi tribù delle Americhe del Sud).

Infatti, Cortés 20: “grazie a questo sistema informativo perfettamente efficiente viene a conoscere rapidamente e in modo circostanziato dell’esistenza di dissensi interni fra gli indiani, un fatto che, come abbiamo visto, ebbe importanza decisiva per la vittoria finale.  Fin dagli inizi della spedizione, egli è attentissimo a ogni notizia in proposito.  Quei dissensi erano effettivamente molto numerosi”.

Scrive Bernal Díaz 21: “erano continuamente in guerra, provincia contro provincia, villaggio contro villaggio. Quando arrivarono gli spagnoli, tutti i signori e tutte le province erano tra loro in aspro contrasto e in guerra continua gli uni contro gli altri. Lo stesso Cortés è particolarmente sensibile alla cosa vista la discordia e inimicizia degli uni contro gli altri, non ne ebbi poco piacere perché mi sembrò che mi venisse molto utile per sottometterli più in fretta”.

In tale contesto, rendendosi conto delle divisioni sociali e culturali che spesso portavano alla battaglia tra i nativi, Cortés si presentò in veste di liberatore agli occhi di Tlaxaltechi e Totomachi i quali, alleandosi a lui forniscono vettovagliamenti e migliaia di guerrieri, andando così ad impossessarsi di una delle chiavi della sua futura conquista: la contrapposizione tra i nativi.

Appare importante riferire che, i popoli che si allearono con Cortés erano di fatto quegli stessi popoli che vennero sottomessi dagli Atzechi, infatti, i nuovi compagni di conquista non identificarono negli spagnoli una figura colonizzatrice, in quanto per essi il male peggiore era rappresentato dagli Aztechi, descritti a Bernardino de Sahagun come invasori scesi dal nord violenti e predatori.

La divisione dei nativi è stata per Monctezuma una delle cause della sua disfatta, difatti, egli non fu in grado di sfruttare le informazioni sugli spostamenti degli spagnoli e sulle loro alleanze, non riuscendo a sfruttare la sua netta superiorità in termini di uomini e conoscenza del territorio. Ma spesso i conquistadores si sono mostrati imprevedibili. E tale imprevedibilità, in un mondo messicano dove nulla accade per caso secondo la concezione ciclica del tempo, in un mondo in un cui tutto è prevedibile da parte dei sacerdoti ed indovini, ha rappresentato uno spartiacque. L’arrivo degli spagnoli posizionato all’interno del sistema ciclico degli avvenimenti è stato un cataclisma.

L’analisi condotta da Todorov mostra come gli Aztechi accostarono l’arrivo degli spagnoli ai presagi, ai sogni di Monctezuma, al racconto indigeno sulla ricomparsa del Dio Quetzalcoatl, con il quale lo stesso Cortés sarebbe stato confuso. Questi sono i segni che Monctezuma ha seguito e che hanno in parte causato la disfatta.

CRONACHE DI CONQUISTA: “UNA” RAPPRESENZAZIONE DELLA REALTÀ

Un aspetto importante da analizzare potrebbe essere quello inerente alle informazioni arrivate in Spagna in quel periodo durante la conquista. A partire dalla fine del XV e per tutto il XVI secolo si affermò in Spagna un vero e proprio filone storiografico che esaminava (ed esaltava) i fatti interni ed esterni del Regno e dell’Impero di Carlo V 22.

Uno degli storiografi più importanti di quel periodo è stato Juan Ginés de Sepúlveda il quale, nelle sue considerazioni sul Nuovo Mondo, utilizza una serie di scrittori delle «cose americane» in modo tale da capire, scoprire e analizzare questo grande evento che andava ad affiancarsi ai poderosi avvenimenti europei e mediterranei.

Egli non andò mai nel Nuovo Mondo, acquisendo la percezione di questo dalle lettere di Cortés, che conosce personalmente, e col quale ha la possibilità di colloquiare direttamente. Un’altra fonte utilizzata da Sepúlveda  è stata la lettura dei resoconti di Pietro Martire d’Anghiera, che gli fanno apparire le Indie come un paradiso tropicale attraversato da predoni senza scrupoli che percorrevano in lungo e largo la penisola dello Yucatan per trovare popoli da schiavizzare 23.

L’umanista italiano racconta degli spagnoli giunti per porre fine a tali nefandezze, di guerrieri cristiani che lottavano per distruggere il grande impero pagano 24.

Le gesta di Cortés sono narrate secondo uno schema epico: Cortés combatte dapprima contro i Tlaxcaltecas e poi si allea con loro, che erano nemici giurati degli Aztechi. La vista di Tenochtitlan con i suoi templi e le sue piramidi sembra un sogno per gli spagnoli; le gesta di Alvarado e dello stesso Cortés convincono Pietro Martire che solo gli spagnoli, tra tutti i popoli dell’epoca sono capaci di tali imprese. La stessa figura dei conquistadores era esaltata come quella del più grande eroe medievale spagnolo, EI Cid Campeador che, come questi aveva strappato Valencia ai mori, allo stesso modo Cortés conquisterà la città di Tenochtitlan strappandola da mani pagane 25.

I fatti inerenti alla conquista del Messico inizialmente non destarono larga attenzione in Spagna, anche perché le notizie giungevano in base alla narrazione di avventurieri e umanisti italiani.

La lezione di Cortés è semplice: prima di dominare, è necessario assumere informazioni. Lo stesso Cortés non ha mancato di esplicitare questa regola in alcuni documenti successivi alla conquista. In una memoria indirizzata nel 1537 a Carlo V, scrive che: prima di conquistare un paese è necessario «informarsi per sapere se è abitato, e da quali popolazioni, quali sono i loro culti e i loro riti, di che cosa vivono e che cosa c’è nelle loro terre».

Si intravede qui la funzione della futura etnologia: l’esplorazione di quei paesi porterà a un loro (migliore) sfruttamento. Com’è noto, la Spagna sarà il primo paese ad applicare sistematicamente questo precetto, grazie alle indagini promosse per iniziativa della corona 26.

ACCENNI DI IBRIDAZIONE TRA LE CULTURE: LA PARTICOLARE FIGURA DEGLI INTERPRETI

La prima sostanziale ibridazione delle culture che vennero a contatto durante la conquista delle Americhe è stata probabilmente quella data dagli interpreti, in quanti essi di fatto stavano idealmente al centro tra i due mondi.

Forse il capostipite di tale figura fu Gerónimo de Aguilar, un viaggiatore spagnolo, interprete, nonché frate francescano della fine del XV secolo.

Egli nacque vicino Siviglia nel 1489 e fu una personalità decisiva in relazione al processo di conquista messo in atto da Hernán Cortés in Messico. Nel 1511 Gerónimo de Aguilar volse verso l’America, esattamente nell’isola di Santo Domingo, a bordo della caravella Santa Maria. Però, il caso volle che la nave su cui egli era in viaggio naufragò vicino la penisola dello Yucatan in Messico. In tale naufragio numerosi membri dell’equipaggio perirono, invece i sopravvissuti, raggiunsero la costa vicino Quintana Roo.

Dopo lo sbarco una tribù dei Maya catturò i sopravvissuti, tra cui Aguilar, e poco dopo alcuni di essi vennero sacrificati ai propri Dei. Aguilar ed un altro membro (Guerrero) riuscirono a salvarsi fuggendo e rifugiandosi nell’entroterra della penisola. Purtroppo, le vicissitudini per i due sopravvissuti non terminarono, in quanto vennero catturati da un’altra tribù Maya, facendoli schiavi. Durante tale periodo di schiavitù i viaggiatori spagnoli stettero a stretto contatto con i Maya, apprendendone gli usi e costumi. Ma l’aspetto fondamentale fu quello inerente all’apprendimento della loro lingua. Eppure, i due sopravvissuti, benché nello stesso contesto di adozione, ebbero un approccio differente, in quanto il compagno di Aguilar si abbandonò totalmente al nuovo stile di vita, sposandosi con una donna nativa del luogo e avendo con lei prole, mentre Aguilar non si inserì completamente nelle dinamiche della tribù Maya. La permanenza di Aguilar tra i Maya durò circa otto anni fino a quando, nel 1519, l’equipaggio di un vascello spagnolo con al comando Hernan Cortés, venne a sapere di due spagnoli catturati. Il conquistadores spagnolo decise di liberarli andando a recuperarli ma, Guerrero preferì di non seguirli in quanto ormai integrato tra i Maya con la sua famiglia, invece Geronimo de Aguilar andò alla volta del Messico congiuntamente a Cortés.

Aguilar, essendo in grado di comprendere e parlare la lingua locale, iniziò a svolgere il compito di interprete in occasione dei rapporti di Cortés con il popolo Maya 27. Quando la spedizione spagnola arrivò in Messico, i nativi del luogo non avevano dei sentimenti propriamente d’apertura nei confronti dei conquistadores, infatti, Cortés si servì di Aguilar onde presentare il gruppo con mere intenzioni di esclusivo transito in quella zona.

Lo scambio comunicativo successivo non fu possibile in quanto la spedizione spagnola si spostò in una zona in cui era stanziato il popolo Azteco che aveva quale lingua il nahuatl, ben differente dalla lingua Maya, idioma non conosciuto da Aguilar.

Lo stallo venne superato con la già citata Malinche, una schiava indigena che parlava il nahuatl ma anche la lingua dei Maya. Questo “affiancamento” di interpreti creò uno strano triangolo linguistico, in cui la Maliche traduceva dal nahuatl al Maya per Gerónimo de Aguilar, il quale a sua volta traduceva dal maya allo spagnolo per Hernán Cortés. Il sistema operava chiaramente anche al contrario, con il Maya come lingua ponte tra spagnolo e nahuatl. La figura di questi interpreti di fatto inaugurò quel sistema di ibridazione tra i popoli che vennero in contatto durante l’epoca della conquista delle Americhe. Appare fin troppo agevole porre l’accento sulle radicali differenze tra le varie culture, ma nei fatti, la convivenza, più o meno forzata, ha prodotto quell’incontro tra le varie culture, anche se nei fatti vi è stata una ampia opera di cancellazione dell’identità dei nativi Americani.

LA CANCELLAZIONE DELLA MEMORIA STORICA DEI NATIVI AMERICANI

In riferimento alla cancellazione della memoria storica il processo messo in atto dagli spagnoli fu inesorabile: “gli Spagnoli bruceranno i libri dei messicani per cancellarne la religione, infrangeranno i loro monumenti per far sparire ogni ricordo dell’antica grandezza” 28.

La sostituzione della memoria inerente agli usi e costumi religiosi dei nativi ebbe il medesimo andamento, infatti 29: “la conquista religiosa consiste spesso nel portar via da un luogo santo certe immagini e nel metterne altre al loro posto pur conservando, e ciò è essenziale, i luoghi di culto e bruciando dinanzi ad essi le stesse erbe aromatiche”.

Cortés racconta: “i maggiori di questi idoli, in cui essi avevano più fede e credenza, io li abbattei e scaraventai giù dalle scale e feci pulire le cappelle in cui stavano, essendo tutte piene del sangue dei sacrifici, e misi in esse statue della Madonna e di altri Santi».

Il medesimo tenore viene riferito da Bernal Díaz il quale testimonia 30: “Fu allora che fu dato ordine di incensare, in avvenire, con l’incenso indigeno l’immagine di Nostro Signore e la Santa Croce. È giusto che quanto è servito al culto del demonio sia trasformato in tempio per il culto di Dio”.

Ulteriormente fra Lorenzo de Bienvenida 31: “i preti e i frati cristiani andranno ad occupare esattamente il posto rimasto vuoto dopo la repressione dei ministri del culto religioso indigeno, che gli spagnoli del resto chiamavano con nome papas, contaminazione del termine indiano con cui venivano abitualmente designati e della parola papa”.

Cortés rese del tutto esplicito questo rapporto di continuità: «il rispetto e la buona accoglienza che [gli indiani] offrono ai frati sono la conseguenza delle disposizioni impartite dal marchese del Valle, Don Hernán Cortés, il quale fin dall’inizio ordinò loro d’essere molto rispettosi ed obbedienti nei confronti dei preti, così come erano soliti fare con i ministri dei loro idoli» (Motilina, III, 3).

I DIFENSORI DEGLI INDIGENI E LA DISPUTA SULL’INEGUAGLIANZA DEGLI INDIOS. LA DIFFERENTE PERCEZIONE DEI NATIVI DA PARTE DEGLI OSSERVATORI: DA COLOMBO A SAHAGÙN

Il desiderio di arricchirsi e l’istinto di padronanza sono certamente all’origine del comportamento degli spagnoli; ma esso è condizionato anche dall’ idea che i conquistatori si fanno degli indiani, idea secondo la quale questi ultimi sono degli esseri inferiori, delle creature a mezza strada fra gli uomini e gli animali. Senza questa premessa essenziale, la distruzione (probabilmente) non avrebbe potuto aver luogo 32.

Michel de Montaigne in un suo scritto riferisce 33 che è possibile dunque vivere senza artifici e senza inganni, gli abitanti delle Indie ne sono la prova: “Quei popoli che abbiamo or ora scoperto, così abbondantemente forniti di cibo e di bevanda naturale, senza preoccupazioni e senza fatica, ci hanno insegnato che il pane non è il nostro solo alimento, e che, senza agricoltura, la nostra madre natura ci aveva forniti a sufficienza di tutto ciò che ci abbisognava; anzi, come è verosimile, con maggiore abbondanza e ricchezza di quanto faccia ora che vi abbiamo introdotto la nostra arte  giacché l’eccesso e la sregolatezza del nostro appetito superano tutto ciò che cerchiamo di inventare per saziarlo”.

Il narratore sostiene, e non vi è motivo di dubitare che, sostanzialmente la natura aveva già organizzato tutto l’essenziale per gli abitanti della Terra, tra cui il nutrimento, l’acqua e le terre coltivabili utili all’insediamento umano.

Purtroppo, in tale sistema quasi perfetto l’uomo europeo, con la sua voglia del superfluo, ha via via sempre più necessità di “avere”, più di quanta se ne possa soddisfare in condizioni normali, andando a creare un sistema di continua ricerca di beni da possedere, oltrepassando quell’equilibrio che la natura è in grado di soddisfare (i richiami alla società moderna sono quanto mai necessari).

Specularmente alla popolazione del vecchio mondo, gli indios, si accontentavano di ciò̀ che la natura donava loro.

Montaigne in riferimento agli indios riferiva 34: “e sono ancora nella felice situazione di desiderare solo quel tanto che le loro necessità naturali richiedono; tutto quello che va al di là è superfluo per loro”.

Montaigne difende l’estraneità̀ dei popoli amerindi nei confronti della smania di ricchezze, della ricerca del lusso e di altri vizi loro sconosciuti, esaltando le ordinate e pacifiche comunità che, anche “senza magistrato e senza leggi”, sono perfettamente capaci di governarsi 35.

Su tali differenti modi di concepire la vita, si insinua anche la disputa sull’uguaglianza degli indios.

In uno scritto 36 di Diego Mundaca Machuca viene affermato che “è necessario puntualizzare che, a partire dal secolo XVI, esiste un movimento intellettuale, iniziato da ecclesiastici e funzionari colti, che cercarono di regolare la condotta dei conquistadores e dei coloni attraverso principi di maggiore giustizia”.

In tale contesto si muove una certa presa di coscienza da parte di alcuni religiosi, tra cui don Vasco de Quiroga, vescovo del territorio di Michoacán, il quale in una missiva 37 al Consiglio delle Indie evidenzia le problematicità e le penurie in cui si trovano ancora i nativi: “Perché ce ne sono tanti, che sembra che siano come le stelle nel cielo e la sabbia nel mare, che non si riesce a tenerne il conto e non si potrà credere alla moltitudine di questi indios, e per questo il loro modo di vivere è un caos e una confusione, che non esiste persona che comprenda i loro comportamenti e le loro abitudini, non possono essere organizzati né educati da buoni cristiani, né si può ostacolare ubriachezza e idolatria, né altri cattivi riti e usanze che hanno, se non c’è modo di ricondurli all’ordine e all’arte di popoli ben disposti e regolati, dal momento che vivono sparpagliati, senza criterio né armonia di popolo, a parte il fatto che tutti possiedono il loro povero pegujalejo (appezzamento di terreno) di mais, intorno alle loro casupole, nei campi, dove, senza essere visti né sentiti, possono adorare idoli e ubriacarsi e fare ciò che vogliono, come si è visto e si vede ogni giorno per esperienza. E la buona conversione di questi nativi deve essere il principale intento e fine poiché questa gente non sa opporre resistenza a tutto ciò che si comanda loro e si vuole fare di essi, e poiché sono tanto docili e adatti naturalmente per poter imprimere in loro la dottrina cristiana, perché hanno naturalmente innata umiltà, obbedienza, povertà, disprezzo del mondo e semplicità, andando scalzi con i capelli lunghi senza alcuna cosa sulla testa”.

Appare evidente che l’uguaglianza degli indios con gli europei non era possibile, i nativi erano dei selvaggi, e per tale motivo dovevano essere convertiti, oppure schiavizzati.

Come evidenzia Todorov “da un lato, dunque, Colombo vuole che gli indiani siano come lui e come gli spagnoli e la sua simpatia per gli indiani si traduce naturalmente nel desiderio di vederli adottare le sue stesse usanze.”

Questo desiderio di far adottare dagli indiani i costumi degli spagnoli non viene mai giustificato: è una cosa che va da sé” 38.

Appare quasi eufemistico affermare che siano gli indios ad imparare la lingua spagnola e che si convertano alla fede cristiana, in quanto gli usi e costumi europei non sono, e non possono essere messi in discussione. Cristoforo Colombo è di origine europea, il suo fine è l’occupazione dei territori scoperti, quindi, cercherà in tutti i modi di piegare ai nativi facendo accettare usi, costumi e loro la religione cristiana, e successivamente, sottostare al regno di Spagna.

Come già detto, inizialmente Colombo si riferisce ai nativi quale complemento del paesaggio affermando che “fra gli uccelli e gli alberi vi sono anche gli uomini”. L’incontro con le popolazioni indigene inizia nel peggiore dei modi possibili. Benché l’opera di evangelizzazione successiva, almeno formalmente, avesse intrapreso una certa coscienza in ottica di eguaglianza tra nativi ed europei, vi furono alcuni tentativi di “assunzione del punto di vista indios”.

Una spinta verso tale cambiamento, in riferimento alla “natura” dei nativi avvenne grazie a Bartolomé de Las Casas che, con una sorprendente capacità empatica assunse il punto di vista degli “altri” e tentando di accogliere serenamente la loro diversità anche se per egli era moralmente inaccettabile. Con questo atteggiamento Las Casas inaugura un approccio multiculturale e “relativistico” alla diversità degli infedeli che non ha precedenti nella cultura occidentale 39.

Con queste parole Danilo Zolo 40 delinea le coordinate del “multiculturalismo pacifista di Las Casas: capacità empatica, diversità, inaccettabilità morale, infedeltà, approccio multiculturale e relativistico”.

La valutazione di Zolo può essere accostata a quella di Anthony Pagden, che considera l’opera di Las Casas come “un programma di etnologia comparata. Luca Scuccimarra ne coglie le ambivalenze ma sostiene che comunque rappresenta un punto di svolta nella riflessione rinascimentale sulle relazioni tra i popoli”.

Baccelli nella sua opera riferisce in merito al pensiero di Las Casas che 41: “gli indigeni, sono dotati di prudenza monastica, economica e politica e le loro società soddisfano tutte le condizioni necessarie poste da Aristotele per la repubblica bene ordinata. I loro costumi e le loro religioni si rivelano anzi più virtuose di quelle delle altre genti, a cominciare dai greci maestri di filosofia e dai romani che hanno sottomesso il mondo. Sulla base di tale concezione, in linea teorica, vi potrebbe essere un possibile processo di uguaglianza tra i nativi e gli europei. Bisogna rammentare che, le differenze culturali tra un europeo del 1500 e la nostra sono sostanziali, e per tanto, poteva risultare abbastanza complicato riconoscere e mettere a sistema delle differenze che, per quei tempi, potevano risultare talmente abnormi da non poter includere nel proprio insieme “genere umano” i nativi.

Infatti, Castro 42 ha enfatizzato questo paradosso fino a cogliervi “la contraddizione implicita nell’atto di imporre una credenza religiosa aliena, come il cristianesimo, a un popolo che ha già credenze teologiche ben definite e cosmogonie accuratamente costruite”.

Ulteriormente, Eduardo Subirats aveva già colto il nesso fra la critica riformista della distruzione degli indiani avviata dal sermone di Montesinos e la “conquista spirituale”: la costruzione di una nuova identità dei nativi attraverso la conversione “di fatto inconcepibile senza una violenza fondativa, in questa strategia la difesa degli indiani passava per l’eliminazione della loro memoria e delle loro forme di vita” 43.

Appare evidente che, l’affermare che la difesa di un popolo possa passare dalla eliminazione della sua memoria storica appare quanto mai difficile da immaginare. Importante è la percezione del domenicano Diego Durán, uno dei primi autori di un testo inerente alla storia e la civiltà degli Atzechi.

Per Todorov il domenicano è ambiguo, o addirittura contraddittorio, infatti egli riferisce che 44:  “certo è che Durán non vede in essi né dei buoni selvaggi, né dei bruti sprovvisti di ragione; ma egli non sa come conciliare i risultati delle sue osservazioni. Gli indiani possiedono una mirabile organizzazione sociale, sono uomini notevolmente intelligenti, e tuttavia, persistono ciecamente nella loro fede pagana. Costoro erano, da un lato, ben organizzati e amministrati, ma erano, d’altro lato, tirannici e crudeli, ossessionati dalle ombre dei castighi e della morte. Ogni volta che mi soffermo ad esaminare gli infantilismi sui quali costoro fondavano la loro fede, mi sento pieno di stupore dinanzi all’ignoranza che accecava un popolo, il quale non era né ignorante, né bestiale, ma abile e saggio in tutte le cose mondane, soprattutto le persone di valore”.

Il tenore dei giudizi cambia quando egli si riferisce ai conquistadores. Per quanto concerne, invece, gli spagnoli, Durán è estremamente deciso, non si lascia sfuggire alcuna occasione per condannare coloro che predicano la fede con la spada in pugno; la sua posizione al riguardo non è molto diversa da quella di Las Casas (anche lui domenicano), benché le sue espressioni siano meno aggressive. Durán è fortemente perplesso quando si trova a dover soppesare i pro e i contro della conquista. Tale processo si sublima nel seguente passaggio 45: “fu nell’anno della canna» [del calendario azteco] che gli spagnoli arrivarono in questa terra. Il beneficio per le anime degli indiani fu immenso e beatificante, perché essi ricevettero la nostra fede, che si moltiplicò e continua a moltiplicarsi. Ma quando mai essi soffersero più che in tale anno?”.

Egli fu perfettamente conscio che da una parte vi fu il dramma della conquista spagnola, dall’altra l’ipotetico beneficio della “scoperta” della fede cristiana.

Altra importante figura nella critica della conquista spagnola è stata quella del francescano Bernardino de Sahagún, nato in Spagna nel 1499.

Egli si recò in Messico nel 1529 e vi rimase sino alla sua morte nel 1590.

Uno degli aspetti importanti del pensiero di Sahagún è quello inerente alla distinzione tra la religiosità in sé e il suo oggetto: “se il Dio dei cristiani è superiore, il sentimento religioso degli indiani è più forte. In fatto di religione e di culto degli dèi, credo non siano mai esistiti al mondo idolatri più inclini a onorare i loro dei degli indiani della Nuova Spagna, a prezzo di tanti sacrifici (I, Prologo – Historia general de las cosas de la Nueva Espana) 46.

Ulteriormente, il pensiero di Sahagún approfondisce la cancellazione della memoria storica dei nativi ammettendo che la sostituzione della società azteca con la società spagnola è dunque un’arma a doppio taglio e che il risultato finale è negativo: “tutte le pratiche [idolatriche] cessarono all’arrivo degli spagnoli, i quali si dettero a calpestare tutte le usanze e le abitudini di governo proprie degli indigeni, con la pretesa di costringerli a vivere come in Spagna sia nelle pratiche religiose che nelle cose umane, e ciò per il solo fatto di considerarli idolatri e barbari; in tal modo, andò perduto il loro antico modo di governarsi. Ma oggi si vede che questa nuova organizzazione rende gli uomini viziosi, induce in loro pessime inclinazioni e li spinge a compiere azioni che li rendono odiosi a Dio e agli uomini, senza contare le gravi malattie e tutto quanto accorcia la loro vita” (X, 27) 47.

Sahagún vede dunque assai bene che i valori sociali costituiscono un tutt’uno, in cui ogni cosa è legata alle altre; non si possono rovesciare gli idoli senza, al tempo stesso, rovesciare la società; e, anche dal punto di vista cristiano, quella che è stata costruita al suo posto è ad essa inferiore 48.

CONCLUSIONI

Il capitano Alonso López de Avila aveva fatto prigioniera, durante la guerra, una giovane indiana, donna bella e graziosa. Costei aveva promesso al marito, il quale temeva di poter essere ucciso in guerra, di non appartenere ad altri che a lui; ed essa preferì perdere la vita piuttosto che farsi macchiare d’infamia da un altro uomo. Per questo fu data in pasto ai cani.

Così scrisse Diego de Landa nella Relazione sullo Yucatán.

Con questa dedica si apre l’opera immensa di Todorov.

Così probabilmente è stata riportata in vita la memoria di una donna, la memoria di una sofferenza di una singola persona che forse rappresenta il dolore di un’intera popolazione sterminata dall’avidità dei popoli conquistatori. Sterminata anche perché “l’altro” non era considerato umano in quanto differente negli usi, nei costumi e nella religione. Avidità trasformata in violenza ed in incapacità di comprendere l’altro, forse anche perché non si riconosce questi come simile, in un mondo dove lo stereotipo forma gli insiemi, tra cui l’appartenenza al genere umano, almeno nelle forme che si conoscono.

Come Todorov stesso afferma, raccontare il passato, potrebbe (o forse dovrebbe) essere necessario per “cercare la verità” e “all’obbligo di farla conoscere”.

E di ciò egli afferma con forza che “la funzione informativa esiste e che l’effetto dell’informazione può essere potente”.

Tornando al dramma della donna sbranata dai cani, ci si può riferire alla totale incapacità di comprendere le differenze, escludendo gli “altri” dal nostro insieme “genere umano”, infatti, il nostro autore afferma che: “ma proprio l’estraneità culturale determinerà lo scioglimento di questo piccolo dramma, essa non viene violata, come avrebbe potuto accadere a una spagnola in tempo di guerra, ma viene gettata in pasto ai cani, perché donna non consenziente e perché indiana”.

Questo scritto non è una critica religiosa. È un’analisi basata sul rapporto tra la propria visione e quella altrui. È un’analisi basata sulla ricostruzione della più ampia invasione mai realizzata dall’uomo a scapito di altri uomini.  Prescindendo il dato fattuale attinente alla religione, qui si vuol porre l’attenzione sul fatto che, a priori, non si può considerare l’altro inferiore. Non si può a priori affermare che il proprio modello di vita sia migliore di quello altrui. Serve un confronto, non una presa di posizione unilaterale. Il conflitto internazionale, talvolta silente, talvolta esplicito, spesso parte dalla semplice assunzione della contrapposizione di modelli culturali, di frequente oscuri all’osservatore posto davanti.

Tutti hanno ragione. Tutti hanno torto.


Articolo di Giovanni Gambino | Senior Researcher | Hermes – Center for European Studies | WG Geopolitical, Strategic, Economic & Intelligence Analysis


Note

  1. T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Einaudi, pg. 7 ↩︎
  2. T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Einaudi, pg. 41 ↩︎
  3. D. Abulafia, La scoperta dell’umanità, Il Mulino, pg. 12 ↩︎
  4. idem ↩︎
  5. D. Abulafia, La scoperta dell’umanità, Il Mulino, pg. 19 ↩︎
  6. T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Einaudi, pg. 58 ↩︎
  7. Diego de Landa, Relazione sullo Yucatán, pg. 32 ↩︎
  8. T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Einaudi, pg. 58 ↩︎
  9. T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Einaudi, pg. 159 ↩︎
  10. T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Einaudi, pg. 163 ↩︎
  11. T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Einaudi, pg. 93 ↩︎
  12. T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Einaudi, pg. 177 ↩︎
  13. Cristoforo Colombo, Lettera a Luís de Santángel e a Gabriel Sánchez, (15 febbraio – 4marzo 1493), in Colombo, Vespucci, Verrazzano (a cura di Luigi Firpo), Torino, UTET, 1966, pp. 36-37 ↩︎
  14. idem ↩︎
  15. T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Einaudi ↩︎
  16. idem ↩︎
  17. T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Einaudi, pg. 42 ↩︎
  18. T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Einaudi, pg. 77 ↩︎
  19. idem ↩︎
  20. T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Einaudi, pg. 126 ↩︎
  21. idem ↩︎
  22. M. Geuna, Guerra giusta e schiavitù naturale – Juan Ginés de Sepúlveda e il dibattito sulla conquista, ed. Biblioteca Francescana, 2014, pg. 79 ↩︎
  23. idem ↩︎
  24. J. G. Moreno De Alba, Indigenismos en las Décadas del Nuevo Mundo de Pedro Màrtir de Anglerìa, Nueva Rivista de Filologia Hispànica 44 (1996), n. 1, pg. 1-26 ↩︎
  25. B. Aracil Vàron, Hernàn Cortés en sus Cartas de Relaciòn: la configuration literaria del héroe, Nueva Rivista de Filologia Hispànica 57 (2009), n. 2, pg. 749 ↩︎
  26. T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Einaudi ↩︎
  27. https://www.smglanguages.com/geronimo-de-aguilar-linterprete-di-cortes/ ↩︎
  28. T. TODOROV, La conquista dell’America – Il problema dell’altro, Einaudi ↩︎
  29. idem ↩︎
  30. idem ↩︎
  31. idem ↩︎
  32. T. Todorov, La conquista dell’America, op.cit., pp. 177 ↩︎
  33. Michel de Montaigne, Des cannibales, Essais, (1580), (trad.it di Fausta Garavini, Dei cannibali, Saggi, libro I, XXXI, Milano, Adelphi, 1992, pp. 273-274) ↩︎
  34. Montaigne, Des cannibales, Essais, (1580), (trad.it di Fausta Garavini, Dei cannibali, Saggi, libro I, XXXI, Milano, Adelphi, 1992, p. 279) ↩︎
  35. idem ↩︎
  36. Diego Mundaca Machuca, “Vasco de Quiroga en Nueva España (1470-1565). Rasgos de una mentalidad utópica”, Tiempo y Espacio, 24, 2010 ↩︎
  37. http://www.ubiobio.cl/miweb/webfile/media/222/Tiempo/2010/V ↩︎
  38. T. Todorov, La conquista dell’America, op.cit., pp. 51-52 ↩︎
  39. L. Baccelli, Bartolomé de Las Casas – La conquista senza fondamento, Campi del Sapere – Feltrinelli, ed. 2016, pg. 151 ↩︎
  40. D. Zolo, Prefazione A DRP, pg. 10-11. Rif. L. Baccelli, Bartolomé de Las Casas – La conquista senza fondamento, Campi del Sapere – Feltrinelli, ed. 2016, pg. 151 ↩︎
  41. L. Baccelli, Bartolomé de Las Casas – La conquista senza fondamento, Campi del Sapere – Feltrinelli, ed. 2016, pg. 152 ↩︎
  42. D. Castro, Another face of empire: Bartolomé de Las Casas, indigenous rights, and ecclesiastical imperialism, Duke university Press, Durham 2007 – rif. L. Baccelli, Bartolomé de Las Casas – La conquista senza fondamento, Campi del Sapere – Feltrinelli, ed. 2016, pg. 153 ↩︎
  43. L. Baccelli, Bartolomé de Las Casas – La conquista senza fondamento, Campi del Sapere – Feltrinelli, ed. 2016, pg. 153 ↩︎
  44. T. Todorov, La conquista dell’America, op.cit., pp. 265 ↩︎
  45. T. Todorov, La conquista dell’America, op.cit., pp. 265 ↩︎
  46. T. Todorov, La conquista dell’America, op.cit., pp. 289 ↩︎
  47. idem ↩︎
  48. idem ↩︎