Un paesaggio composto da due terzi di cielo limpido e un terzo di prato erboso. Sul sfondo del cielo si delineano alcune pale eoliche.

La Terra di Mezzo del Green Deal europeo

La Commissione europea ha presentato una raccomandazione per l’obiettivo di riduzione delle emissioni per il 2040 e per tracciare il percorso verso la neutralità climatica nel 2050. Il quadro deriva dagli impegni assunti dall’UE nell’ambito dell’accordo di Parigi, e le misure indicate dall’UE fanno riferimento “alla garanzia della competitività dell’industria europea, una maggiore attenzione a una transizione giusta che non lasci indietro nessuno, condizioni di parità con i partner internazionali e un dialogo strategico sul quadro post-2030”.

Alla base delle politiche relative alla transizione verde vi è il veloce innalzamento della temperatura globale causate dall’emissione di CO2 e gas serra, ed in relazione a ciò l’UE ha evidenziato la necessità, con estrema evidenza non più rimandabile, di adottare politiche in grado di limitare il “climate change”.

Tutta l’UE e gli Stati membri si dovranno adeguare a norme stringenti, anche in termini di costo, volte a limitare gli impatti ambientali derivanti dall’attività umana. Questo non è semplicemente lodevole, ma a questo punto è una questione esistenziale, perché il clima si sta modificando più in fretta di quanto si credeva, mettendo a repentaglio vite umane, stili di vita di intere nazioni, nonché l’intero ecosistema globale. Senza mettere in discussione tali politiche, perché ora è in gioco il futuro delle prossime generazioni, si ritiene utile tuttavia estendere la base argomentativa su altri scenari di competizione globale.

Una delle principali cause del riscaldamento globale sono le emissioni di CO2, derivante dall’alta produzione di gas, petrolio e carbone (combustibili fossili), che nel tempo hanno prodotto uno strato impercettibile attorno al nostro pianeta che riesce a trattenere il calore, e da qui, si è sviluppato negli anni il cosiddetto effetto serra che sta concorrendo inesorabilmente al cambiamento climatico.

Il seguente grafico ci mostra in termini di emissioni totali chi produce più CO2.

Data source GLC Budget e realizzazione grafica con OUR World in Data

I dati mostrati evidenziano che la Cina a partire dall’anno 2000 ha avuto una fortissima impennata in termini di produzione di gas serra, superando a partire dal 2005 il principale produttore dell’epoca, ovverosia gli USA.

Sempre intorno a quella data si nota una progressiva diminuzione (circa il 17%) delle emissioni degli USA.

Le emissioni totali di Cina, USA ed India ammontano a più di 7 volte le emissioni dell’Unione Europea a 27 Stati.

Questi pochi dati mostrano la sproporzione in termini di emissioni tra i principali emettitori e l’UE in toto.

Questo deve far riflettere in termini generali, perché la flessione relativa alle emissioni di CO2 di USA e UE a 27, non è accompagnata dalla riduzione degli altri principali Stati produttori di gas serra.

La Cina continua la crescita di importazione e produzione interna di carbone (di recente si è avuto un picco del 73%), aumentando sempre più le proprie emissioni, l’India ha iniziato una cavalcata in tal senso.

La Russia dopo una fase di diminuzione posto caduta URSS è divenuta stabile nelle emissioni. Non si potrà parlare di efficaci politiche di contenimento delle emissioni di gas serra senza la Cina che ne produce quasi il 50% rispetto ai principali paesi industrializzati. Il seguente grafico mostra visivamente quanto prima affermato per le principali economie del mondo.

La Commissione Europea nel suo comunicato stampa in merito alle raccomandazioni sul percorso di raggiungimento della neutralità climatica del 2050 afferma che “aumenterà inoltre la resilienza dell’Europa contro le crisi future e, in particolare, rafforzerà l’indipendenza energetica dell’UE dalle importazioni di combustibili fossili”.

L’indipendenza energetica, anche alla luce delle fibrillazioni introdotte dal conflitto ucraino in termini di approvvigionamento energetico, è uno degli aspetti da raggiungere il prima possibile, questo aspetto è più che evidente.

Ma ciò, a monte, deve essere osservato in termini di catena del valore. Appare impensabile importare elementi provenienti da paesi che non rispettano politiche green per poi inserirli all’interno di politiche verdi dispendiose per i paesi a valle della catena.

Così non si fa altro che avvantaggiare gli Stati emettitori di CO2 aumentando oltre ogni modo il loro vantaggio competitivo derivante anche da un basso costo di manodopera.

L’intera catena del valore dovrebbe essere basata su un’intera filiera verde.

Ad esempio, avrebbe poco senso importare grossi quantitativi di terre rare, fondamentali per la produzione di dispositivi a basso impatto ambientale (come per le batterie per le auto elettriche), quando a monte vi è un gigantesco dispendio di energia derivante da combustibili fossili.

L’impatto in termini di emissioni non deriva solamente, appare ovvio, dall’approvvigionamento delle terre rare, vi sono altre filiere produttive che hanno importanti percentuali di emissioni di gas serra. Due di queste sono il trasporto marittimo con le grandi navi porta container (il principale produttore di merci è la Cina che distribuisce in tutto il mondo) e gli allevamenti intensivi (problematici anche sotto il profilo sanitario). In questo gioco delle emissioni globali servono reali politiche su larga scala, e non solamente da parte di una piccola, in termini percentuali, platea di attori.

In questo contesto emerge con forza, inoltre, il fenomeno del green washing, ovvero l’ecologismo di faccia che serve a migliorare sempre più il vantaggio competitivo degli Stati con una pesante impronta in termini di emissioni. L’Unione europea sta disponendo nuove regole e sistemi di controllo per frenare tale pratica, ma il dubbio che tale fenomeno venga arginato con efficacia è forte.

Altro aspetto indicato nel comunicato stampa della Commissione Europea è il tema della cattura della CO2: “il raggiungimento dell’obiettivo raccomandato del 90% richiederà sia la riduzione delle emissioni che la rimozione del carbonio, sia l’implementazione di tecnologie di cattura e stoccaggio, nonché l’uso del carbonio catturato nell’industria”.

Il tema delle emissioni dei gas serra, quindi non è composto solamente da coloro che emettono tanto, ma anche dai sistemi naturali di cattura della CO2. In termini di cattura delle emissioni di CO2, la foresta pluviale dell’Amazzonia immagazzina l’equivalente di quattro o cinque anni di emissioni prodotte dall’uomo, pari a 200 gigatoni di carbonio.

La deforestazione che sta colpendo il principale bacino in termini di superficie è il Brasile, e qui si è avuto il record in termini di deforestazione: quasi il 20% della maggiore foresta lasciato il posto a colture ed allevamenti intensivi. In pratica si riduce il maggiore metodo di cattura naturale della CO2 lasciando il posto a sistemi che emettono CO2 in modo sostanziale. Anche in questo caso serve una politica globale di contenimento delle emissioni, ma appare sempre più evidente che gli attori internazionali preferiscono coltivare il proprio giardino a scapito dell’avanzata del deserto globale.

L’impegno dell’UE in relazione all’adozione di politiche di contenimento delle emissioni è lodevole e dovuto, ma esso avrà un costo non indifferente per i cittadini europei a vantaggio di altri. Serve una più equa redistribuzione dei costi (nonché futuri benefici) derivanti dall’implementazione di tali politiche. Servono pressioni nei confronti di coloro che hanno ruoli importanti in termini di impronta ambientale. Abbiano una sola casa, e ragionare in ottica di breve termine alla lunga avrà un costo insostenibile per le generazioni futuri, lo sforza dovrà essere globale.


Articolo di Giovanni Gambino | Senior Researcher Centro Studi Internazionali | WG on Geopolitical, Strategic, Economic and Intelligence Analysis